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Immagine del redattoreAurora Tognetti

Gli "Ultimi" della fila

Comunità Papa Giovanni XXIII, Rimini, agosto 2021



Avere uno sguardo umano sul mondo non è sempre facile. mantenere quell’umanità che ti permette di guardare l’altro proprio come essere umano e non cadere nell’inganno del giudizio non sempre ci è possibile. soprattutto quando incontriamo persone con una vita molto distante dalla nostra, persone che hanno commesso sbagli, a volte anche reati e persone che ci sembrano “perse”, quasi da buttare, che non possiedono niente.

è qua che inizia la sfida, e noi abbiamo avuto l'opportunità di incontrare la comunità Papa Giovanni XXIII di Rimini: centro di accoglienza per tutti coloro che si trovano ai margini della società, gli “ultimi”, con lo scopo di riprendere le loro vite e accoglierli in una grande famiglia.


"Abbiamo visto dentro a quelle persone che quando le incontri su un tram ti sembrano perse, quasi da buttare"

Le realtà presenti all’interno della comunità sono molteplici e variano dalle ragazze di strada ai detenuti, bisognosi senza tetto e disabili.

Come gruppo di ragazzi in cammino abbiamo potuto toccare con mano queste diverse realtà, imparando a conoscerne i vari aspetti senza mai dimenticarci di chi avevamo davanti: esseri umani proprio come noi.


"Abbiamo toccato con mano senza mai dimenticarci che davanti a noi prima di un reato, una dipendenza, un gesto c'erano esseri umani"

Abbiamo incontrato alcuni detenuti all’interno di una casa famiglia che hanno deciso di regalarci un pezzo della loro vita condividendo con noi la loro storia, spesso molto travagliata, che li aveva portati a compiere reati. la loro umiltà e il loro dolore unito a una grande consapevolezza ci ha particolarmente colpiti, spronandoci a sospendere il giudizio per metterci in ascolto di chi avevamo davanti. “non siamo il nostro reato” recitava la scritta prima di entrare, ricordando a tutti che oltre alla facciata dello sbaglio c’è ben altro.


"Non siamo il nostro reato"

se da una parte abbiamo trovato interessante ascoltare le loro storie, dall’altra è emersa anche la difficoltà da parte nostra dovuta all’aver preso contatto con vite e storie piene di sofferenza, che spesso smuovevano in noi emozioni molto forti. trovarsi di fronte a un detenuto e parlarci direttamente, avere la possibilità di porre domande ed essere in un dialogo continuo con chi si metteva a nudo completamente sono stati di grande importanza per noi e hanno contribuito ad aumentare quel senso di umanità che ci siamo portati a casa.

Durante l’incontro con queste persone abbiamo potuto approfondire e capire meglio il tema delle carceri, spesso oggetto di discussione nel nostro paese: emerge infatti che, nella maggior parte dei casi, le carceri non “correggano” il comportamento dei detenuti, bensì portino alla ripetizione del reato; è quindi necessario pensare a luoghi che siano in grado di “recuperare” coloro che commettono reati, ponendo particolare attenzione alla rieducazione del soggetto.

Una delle cose che più ci ha messo a dura prova come gruppo è stato l’ascolto delle loro storie e dei loro reati, che spesso ci toccavano in prima persona rendendo difficile mantenere un certo distacco senza farci coinvolgere eccessivamente. Da donna, sentire parlare di una violenza sessuale consumata da un uomo verso un’altra donna, non è facile; e non è facile controllare le proprie emozioni, i giudizi che scaturisco troppo rapidamente. non è facile stare di fronte a un uomo che ti racconta di aver ucciso un suo caro, e nonostante tutto stare lì e ascoltarlo, e provare ad andare oltre avendo sempre la cura di guardare un uomo con occhi da uomo.


Il terzo giorno abbiamo incontrato alcuni responsabili di “operazione Colomba”, associazione che si occupa di risolvere in modo non violento alcuni dei conflitti presenti in territori stranieri, con lo scopo di promuovere la pace. ci hanno raccontato di alcune loro azioni volte a riappacificare famiglie in lotta e abbiamo compreso come, spesso, i dissidi tra casate si protraggano nel tempo con effetti alquanto deleteri. Nonostante gli sforzi e i tentativi da parte dei volontari, raramente si riesce a raggiungere una tregua definitiva, rendendo la vita in quei paesi molto dura.

Abbiamo poi ascoltato la testimonianza diretta di un profugo siriano che dalla Siria è stato profugo in Libano, per poi diventare attivista per i diritti umani. Ci ha parlato della difficoltà del lasciare casa sua e scappare all’improvviso, del viaggio lungo per arrivare fino in Italia.

Grazie anche a una piccola attività che abbiamo fatto sui diritti umani ci siamo resi conto della fortuna che possediamo, semplicemente per essere nati “dalla parte giusta del mondo”. libertà e possibilità con cui nasciamo e che diamo per scontato quotidianamente non sono ugualmente garantite a persone che vivono in altri paesi e che non hanno, per esempio, la tranquillità di uscire di casa senza guardarsi costantemente le spalle per paura di essere uccisi.

Questi volontari ci hanno restituito uno sguardo sul mondo disincantato, uno sguardo consapevole di cosa voglia dire lottare per la vita e per i diritti degli uomini.


Abbiamo realizzato quanto siamo fortunati semplicemente per il fatto di essere nati dalla parte giusta del mondo.

Per toccare ancora più con mano le realtà degli “ultimi” abbiamo incontrato l’associazione “la capanna di Betlemme” che si occupa di offrire un pasto caldo e un posto in cui dormire ai senzatetto. ci hanno spiegato di come funzioni l’accoglienza in questa casa famiglia e di come il loro scopo sia appunto quello di far sentire accolta e a casa una persona che casa non ha. queste persone vengono poi accompagnate in una cooperativa in cui svolgono alcuni lavori manuali, per cercare di reintrodurli nel mondo del lavoro.

Noi ragazzi abbiamo lavorato per una giornata in questa cooperativa, provando noi stessi in prima persona l’attività da loro svolta, e in seguito Amedeo, un ex senzatetto, ci ha spiegato di come sia la vita da senza dimora, del dolore e della solitudine che spesso accompagnano le persone che si trovano a dover vivere sul ciglio della strada, senza più una casa ma soprattutto senza nessun caro.


Spesso nella vita ti accadono cose per cui non sei pronto, e per qualche motivo non riesci ad affrontarle nel migliore dei modi: può essere la perdita del lavoro, la separazione dal coniuge o un avvenimento particolarmente doloroso che ti portano a perdere te stesso.

“Può capitare nella vita di avere un blackout, sentirsi vuoti” dice Amedeo, ed è proprio così. non tutti reagiamo allo stesso modo, non tutti sappiamo ritrovare la strada quando perdiamo la bussola, o forse semplicemente non abbiamo lo stesso modo per ritrovarla. per lui ritrovare la strada di casa ha significato passare anni a dormire in una stazione prima di trovare una famiglia che lo accogliesse e gli desse la possibilità di ricominciare.

Una delle cose che più ci ha colpito è stato constatare che, nella loro vita di strada, la maggior parte delle persone che incontravano si preoccupava di dar loro qualche soldo, senza invece interessarsi di come stessero, di come si sentissero, se avessero dei familiari che li stessero aspettando oppure no. Abbiamo capito che molto spesso la povertà non è una povertà materiale, ma una povertà di affetti, e che in questo caso la ferita più grande sia la solitudine.


Durante la nostra settimana abbiamo incontrato alcune figure genitoriali di case famiglia: persone con una grande vocazione che sentivano la necessità di accogliere sotto il loro tetto varie persone bisognose di una casa e soprattutto di una famiglia. Come Marinella, responsabile dell’associazione Papa Giovanni XXIII, che da anni faceva da mamma a moltissimi bambini, ragazzi e adulti e si occupava di togliere dalla strada le ragazze.

Così anche Marco, figura paterna in una casa famiglia, ci ha raccontato della sua “economia sostenibile” e di come nella loro casa producano autonomamente i prodotti necessari. ci ha confidato di come essere “padre affidatario”, crescere dei bambini e poi vederli ritornare alle loro famiglie naturali non sempre sia facile: i legami che si creano sono davvero molto forti, ma occorre riconoscere che il ruolo di un genitore nella casa famiglia (come in una famiglia "regolare") è anche quello di saper lasciare andare i “figli” quando è tempo.


Ed è anche questo il bello della casa famiglia, luogo di partenze e arrivi: c’è chi esce e chi entra ma ci sono sempre un sacco di scambi e c'è sempre posto per tutti.

Abbiamo concluso la nostra esperienza con la messa finale, momento di condivisione e ringraziamento con anche altri gruppi. ognuno dei gruppi ha portato un proprio pezzetto di storia e di esperienza vissuta in questa settimana, e infine abbiamo ascoltato la storia di Don Oreste Benzi, fondatore della comunità ed esempio ancora oggi vivo per chi decide di dedicare la propria vita al servizio degli ultimi.



Come gruppo sentiamo che questa esperienza ci ha fortemente segnato, lasciando in noi le storie, il dolore ma anche la gioia e il riscatto di chi avevamo incontrato. non tutti abbiamo maturato le stesse idee ma ciò che conta è stato poter vivere e toccare con mano concretamente tutto ciò che prima era astratto e intangibile.


Aurora




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